Dina Staro

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Tutto il materiale è pubblicato per gentile concessione della rivista   

“Folk Bulletin: musica, danza, tradizione” (per ogni utilizzo di questi materiali contattarla preventivamente)

 

 

 

Con la testardaggine di chi pur non avendo una rubrica mensile cui affidare articoli è convinto di poter continuare un discorso... Con la presunzione di chi crede che i precedenti tasselli di questo stesso discorso, gli articoli-intervista sulla ricerca nella danza, quelle chiacchiere tra l’intellettuale e l’aneddotico con i Gala, i Corbefin, i Guilcher e tanti altri, siano stati almeno sfiorati dal vostro sguardo... Con testardaggine e presunzione ci limitiamo, al confine di una nuova intervista con un ricercatore, a dire poco o nulla dei nostri obiettivi. Che si voglia approfondire il mondo della ricerca perché lo riteniamo un mondo sconosciuto ai più e poco frequentato anche dai ricercatori stessi, ormai è ovvio.

Forse è bene chiarire qualcosa di più sull’intervista che segue e, perché no, su quella che l’ha preceduta (a Pino Gala). Lo facciamo però in seconda battuta, alla fine del piacevole incontro con Placida “Dina” Staro. Una chiosa necessaria ed un po’ provocatoria di due, tre anni di interviste.

Una domanda già fatta ad altri ricercatori, ma inevitabile; un problema che è forse il problema della ricerca : quale è il rapporto tra ricerca e revival della danza in Italia? A guardarlo dal mondo dei danzatori, almeno di quello dei bal folk, come si direbbe in Francia, una ricerca non esiste e se esiste non dà frutti...

R. La questione del rapporto tra ricerca e applicazione della stessa è uguale in tutti i settori. In Italia non c’è una struttura che sostenga il singolo ricercatore durante la ricerca o nel momento della divulgazione. La ricerca è lasciata alla libera iniziativa della persona e così anche la diffusione pubblica dei risultati.

 

Cosa vuol dire questo? Se la ricerca avviene in un ambito in cui si ha un ritorno economico immediato, allora è possibile trovare la maniera di rendere pubblico e diffondere il proprio lavoro. Se invece ciò non avviene, hai “voglia di sperare”!!

Per esempio, per quanto riguarda la ricerca sulla danza in Italia, non c’è stato un motore sociale che abbia spinto qualcuno verso queste ricerche: è stata un’esigenza partita dalle singole persone. Questo per lo meno riferendomi alla mia esperienza.

Io all’inizio suonavo musiche da ballo e studiavo etnomusicologia e antropologia. Mi trovavo a suonare in gruppi che facevano del revival che aveva solo un significato politico. Ma era un modo inconcepibile di fare musica: benché non fossi una gran ballerina e non conoscessi benissimo il repertorio di danze, in qualità di nipote di un vecchio suonatore mi rendevo conto che quelle musiche non erano neanche ballabili... Eravamo molto giovani e ci mancavano gli strumenti per capire in cosa sbagliavamo.

Non c’era neppure il problema di chi ballasse, perché in Italia non era ancora arrivato il revival della danza. C’erano le comunità ecclesiali di base che facevano danze d’animazione inventate da coreografi o prendevano ispirazione dalle danze israeliane che non hanno nulla di tradizionale. E in contemporanea a tutto questo, come dicevo prima, il revival politico s’interessava alla canzone politica arrivando a trattare anche brani strumentali tratti dal repertorio da ballo.

Ad un certo punto, dopo l’incontro con il carnevale di Bagolino, che ha al centro la danza, mi resi conto che mi mancavano gli studi sulla danza, non solo sulla danza popolare, ma su tutta la danza. Ma per occuparmi di questo dovevo darmi degli strumenti ed è nata l’esigenza di capire, di studiare antropologia gestuale e comportamentale, piuttosto che quella simbolica. Poi l’analisi del movimento, i suoi sistemi di notazione.

Ma tutto questo, purtroppo, in Italia non si trovava. Cominciavo anche a chiedermi perché facevo tutti questi studi, a che potessero essere utili.

In quegli anni negli ambienti teatrali collegati all’università (almeno a Roma e Bologna) cominciava a nascere l’interesse per lo studio di alcuni repertori di danza, per esempio quella indiana. Ma perché andare così lontano? Io, che all’epoca studiavo al DAMS, feci presente che anche qui vicino esistevano repertori di musiche da ballo che nessuno ballava più. Da tutto ciò iniziò la ricerca sulle danze dell’Appennino Emiliano compiute negli anni ‘77-’78.

A dire la verità io tentai inizialmente di intraprendere questo lavoro di ricerca nella zona di Brescia. Ma fu impossibile: ero una donna e mi era impossibile entrare nella compagnia dei ballerini. Avrei potuto suonare, perché c’era più elasticità nell’accettare donne suonatrici, ma non ballare.

Così la ricerca fu fatta a Bologna. Ne era stata già fatta una precedentemente da Cammelli che aveva evidenziato svariati aspetti di questo repertorio, mettendo particolarmente in luce la figura di Melchiade Benni di Monghidoro.

Iniziai la mia ricerca dalle valli del modenese fino ad arrivare in Romagna. Mi trovai di fronte ad una situazione molto disgregata perché mancavano i suonatori: la gente ricordava i balli ma non venivano più suonati. Erano rimasti alcuni balli rituali, come quelli collegati al carnevale di Bendello. Nelle valli bolognesi, nella valle del Reno non c’erano più suonatori; però c’erano delle registrazioni e alcune persone su questa musica registrata riuscivano ancora a ballare.

Avevo 18 anni e con sei di questi ballerini, impegnando una sala, perchè per questi balli occorre spazio, imparai tutto quanto potevo del repertorio. E capii anche che loro non erano solo in grado di mostrarti dei passi, ma anche di trasmetterti gli strumenti per analizzare e capire. Era presunzione credere di poter capire il loro patrimonio a priori, bisognava ascoltarli per acquistare anche gli strumenti di autoanalisi, per spiegare, per capire, dall’interno, tutti gli elementi della danza. Dall’esterno si sarebbe potuto capire molto poco.

Venne fatto a Bologna un primo stage sulla Cultura in valle, organizzata dall’università e da quelli della valle del Reno, per ragazzi dell’università e per altri che dovevano allestire uno spettacolo teatrale. Nessuno pensava che questa esperienza potesse essere esportata. Invece venne rifatta a Roma.

Intanto però, anche sulla scia dell’interesse che gli ambienti ecclesiali manifestavano verso le danze d’animazione e le danze in cerchio, alcuni insegnanti di queste comunità pensarono che si potesse inventare qualcosa partendo anche da questo repertorio. Un repertorio che era stato appena analizzato e, limitatamente, presentato in pubblico.

Qui mi arrabbiai, perché questo lavoro di ricerca aveva ben altre finalità che quella di diventare stimolo di svariate trasformazioni coreografiche. Noi pensavamo di far conoscere la ricchezza di questo repertorio, la complessità di questo linguaggio e non altro.

Decidemmo, allora, che non avremmo più tenuto stage di danza.

Ci fu un unico caso a Milano, nell‘81, una dimostrazione in un pomeriggio. Bene, due mesi dopo tornammo e, con Melchiade Benni, suonammo in Piazzale Cuoco (Milano, N.d.R.): c’erano centinaia di persone che ballavano qualcosa con la convinzione di ballare i balli emiliani. Ci rimanemmo molto male, ma ormai il meccanismo era stato innescato.

Contemporaneamente, prima di poter riuscire a dire effettivamente qualcosa sulla danza, io feci il mio percorso personale di studi in campo antropologico e metodologico.

All’epoca pensavo che questo interesse relativo alla danza si sarebbe velocemente espanso. La danza tradizionale aveva così tanti e diversi livelli di accesso che ognuno poteva trovare al suo interno la propria modalità espressiva.

Cercai, in diverse occasioni, di invitare le persone ad occuparsi di ricerca in altri repertori italiani. A Roma ci fu anche un convegno, organizzato dal Comune e dall’Università, per promuovere questi studi. Ad esempio ci fu Donata Carbone che, dedicandosi allo studio del repertorio di Amatrice, si occupò dell’analisi e trascrizione del movimento.

Ma quanto succedeva dipendeva ancora dall’interessamento di singole persone, non certo degli enti pubblici.

Io, in questa fase, feci fatica, essendo tra le prime persone ad interessarmi a queste cose, ad avere credito. Ma fortunatamente non fu così sempre.

Poi ci fu l’esperienza della Scuola di Arte Drammatica di Milano dove fu istituito un corso di formazione per qualificare chi avesse insegnato o fatto ricerca. Ma ci furono pochi iscritti e più volte si rischiò di chiudere.

Nello stesso periodo iniziavano altre ricerche, in Piemonte, Lombardia, Trentino e Friuli. Ricerche che, in qualche modo, erano sostenute da enti pubblici. Ma dopo questi casi, purtroppo, non ne seguirono altri e gli enti non diedero più alcun segnale di vita.

Adesso che comincia a diffondersi una certa sensibilità verso queste tematiche, cosa succede? Succede che si utilizzano le persone, magari interne all’università, ma senza alcun tipo di formazione specifica e adatta. Inoltre le ricerche fatte in ambito universitario difficilmente arrivano alla diretta utilizzazione della gente, dei danzatori. Sono ricerche che non sono finalizzate all’aggregazione, alla danza; sono solo studi individuali dei singoli ricercatori.

Cos’è cambiato in questi anni nell’utilizzo dei risultati delle ricerche fatte?

E’ cambiato parecchio. Intanto è cambiata la situazione.

All’inizio alla gente non interessavano i balli montanari e neppure la cultura montanara.

All’epoca il coro di Monghidoro aveva fatto un’opera meritoria registrando e salvando i canti della zona. La gente, in genere, non amava guardare a queste cose perché rappresentavano la povertà, la miseria, i tempi difficili,... Ballavano, sì, ma il ballo liscio, perché era cittadino, nobile... Tutti conoscevano i balli montanari, ma guai a farcelo sapere. Era come ammettere di appartenere alla categoria dei disgraziati. Nel frattempo però stavano tornando tutte le persone emigrate a Bologna, con la convinzione di poter stare bene anche al proprio paese d’origine.

Oggi le cose sono cambiate. Ci sono quelli che vanno in discoteca ma hanno , nello stesso tempo, la consapevolezza dei loro balli, ne vanno fieri ed orgogliosi e ci trovano gusto a ballarli. Ci sono i vecchi che ballano secondo uno stile diverso da borgo a borgo e quelli della nuova generazione che hanno imparato. Ballano anche i ragazzini.

L’associazione “E bene venga maggio” promuove soprattutto l’aggregazione, gli incontri finalizzati alla musica e alla danza. Si è di nuovo diffuso un linguaggio comune a tutti e tutti riescono a ballare durante le feste.

Si è arrivati addirittura a rivendicare le diversità stilistiche dei propri anziani : “Voi potete dirmi quello che volete, ma mia nonna ballava così e quindi lo faccio anch’io!”. E’ importante che ognuno trovi divertente sviluppare un proprio linguaggio.

Oggi, al contrario di quello che si potrebbe immaginare, ci sono molti più ballerini e molti più stili di ballo rispetto a 15 anni fa.

Durante le ricerche di Cammelli e fino ai tempi della Scuola d’Arte Drammatica mi ricordo che il termine utilizzato per definire questo repertorio era il “ballo saltato”. Ora invece è più usato il termine “ballo stacco”....

I termini per definire questi repertori, nelle zone di origine, sono vari. Si usa, ad esempio, dire “andare a ballare i Ruggeri”. Ma “ballo montanaro” è forse il termine più conosciuto.

In fondo Bologna non è tanto lontana e questi balli venivano ballati in pianura e in città, almeno fino agli anni ‘30, con uno stile leggermente diverso. C’erano quindi i balli di pianura e di montagna.

“Ballo staccato” è, invece, una definizione che veniva usata per distinguere questi balli dal liscio. “Staccato” o “spécc”. “Bàl stàcc” in montagna e “Bàl spécc” in pianura. “Spécc” perché era spiccato, saltato, sollevato, diverso, anche in questo, dal liscio.

Credo che sia importante che cresca il numero dei ricercatori. Cosa deve fare, secondo te, una persona che vuole avvicinarsi al mondo della ricerca?

La prima cosa da chiarire è che non tutti possono fare i ricercatori. Per essere un ricercatore è necessario avere un’attenzione particolare verso gli altri, essere disponibili ad accettare quello che gli altri ti stanno dicendo. Sapere di dover tradurre tutto quanto in un linguaggio legato ad una diversa comprensione delle cose, ma aspettare di conoscere i criteri di interpretazione della realtà di chi parla, evitare assolutamente ogni forma di interpretazione a priori. Questo significa ciò che in altri ambiti è chiamato “umiltà”.

Inoltre occorre avere una straordinaria capacità di adattamento.

E’ importante, dopo aver capito i meccanismi di valutazione, i criteri d’interpretazione del mondo dell’altro, inserirsi in questo mondo con la giusta chiave. Puoi pensare di avere a che fare con persone della tua stessa cultura, ma è probabile che le dinamiche sociali siano differenti e la conoscenza di queste dinamiche è molto importante.

Superato lo scoglio della predisposizione individuale, che è fondamentale, di passa agli strumenti che un ricercatore deve possedere per poter spiegare ad altri quanto si è imparato o capito. E’ necessario, ad esempio, avere degli strumenti analitici relativamente alla musica, studiare, quindi, il funzionamento dei sistemi musicali, soprattutto relativamente al movimento. Bisogna possedere, poi, nozioni tecniche che permettano un’analisi dal punto di vista motorio e della consequenzialità (quando e perché i movimenti seguono un certo ordine), nozioni in campo linguistico, semiotico per poter spiegare un linguaggio. Infine servono anche degli studi di carattere antropologico, perché in fondo ci occupiamo di persone, di persone che nella danza mettono in moto un’organizzazione simbolica del pensiero.

L’importanza di scuole, corsi come quelli che hai tenuto alla Scuola di Arte Drammatica....

Se dovessi giudicare oggi i risultati, direi che queste scuole lasciano il tempo che trovano.

Su molte persone che avevano frequentato quella scuola, una sola ha effettivamente imparato a fare ricerca.

Purtroppo la cosa più importante è la disposizione mentale delle persone. Se la possiedi, impari ogni cosa e sei in grado di trasmettere queste cose ad altri.

Comunque è sicuramente utile avere delle scuole che diano strumenti metodologici. Sono scuole che ti evitano di passare gli anni a girare per l’Europa e l’America, come ho fatto io, per acquisirli.

E’ evidente che queste scuole ci devono essere, ma chi sia deputato a crearle e organizzarle è un problema. Un problema istituzionale. Credo che dovrebbero essere le università ad occuparsene.

Una cosa che è parsa molto interessante nei tuoi stage è l’impostazione didattica, il tuo modo di avvicinare ciascuno al repertorio ed alla cultura che insegni. Dai molta attenzione al linguaggio gestuale, dinamico all’interno delle danze e, anche in relazione alla complessità ed importanza di quest’ultimo, tendi chiarire subito i limiti del tuo insegnamento.

E’ un atteggiamento che dovrebbero avere tutti gli insegnanti, se insegnano davvero. Quando vuoi fare l’insegnante ti devi porre obiettivi che non devono essere troppo elevati rispetto al tuo campo d’intervento e alle possibilità delle persone che hai davanti.

Nella programmazione di un intervento relativo alla danza devo chiedermi quali sono i limiti di quanto sto facendo. Se non lo faccio, non riuscirò ad approfondire e raggiungere i miei obiettivi. E’ un problema di impostazione metodologica e di corretta organizzazione del lavoro. Devo sapere ciò che propongo e ciò che non sono in grado di fare.

Le persone che insegnano danza, fatte debite eccezioni, non sanno neppure cosa stanno insegnando perché, a loro volta, hanno avuto una conoscenza solo parziale del repertorio.

Chi ha visto una danza per tre volte, non può pretendere d’insegnare un linguaggio gestuale. Propone, in realtà, una sua interpretazione, crea un modello rispetto a ciò che ha visto.

L’insegnante non si deve, in realtà, proporre come modello, ma deve mettere gli altri in grado di creare delle forme, di esprimersi nella danza. E questo è valido per qualsiasi repertorio, anche per quelli apparentemente ripetitivi.

In Francia, rispetto ad alcuni repertori, è stato fatto un lavoro di questo genere e molti insegnanti sono in grado di insegnarti ciò che è necessario per poter imparare.

Avendo ascoltato poco tempo fa Pino Gala e avendo appena spento i microfoni per Dina Staro, non possiamo che emettere un doppio respiro di soddisfazione. Di fronte ai due principali costruttori, per lo meno dal punto di vista della costanza, dell’etnocoreologia italiana, tanto di cappello. Essere riusciti in un’Italia sorda ai vertici e sorda alla base a sopravvivere, non è cosa semplice. Sopravvivere, poi, non solo fermandosi ad accademismi fini a se stessi, ma cercando, provando a riflettere su quanto trovato, costruendo metodologie, atteggiamenti scientifici di fronte a diffusi e più comodi empirismi.

Tutto questo è lodevole. Tutto questo è ammirabile.

Ma ascoltando loro due, guardandoci in giro, parlando oltre i microfoni tra il serio ed il faceto, chiacchierando con annessi e connessi, leggendo e “vivendo” il revival della danza da svariati anni, ci siamo resi conto che la situazione della ricerca in Italia è poco meno che drammatica. E non solo per gli importanti problemi che ciascuno ha espresso - tutti validi, sia inteso - e che avete letto anche in questa intervista.

La ricerca sulla danza in Italia vive un isolamento provocato dall’esterno e da questo isolamento non è riesce ad uscire per mancanza di forze dall’interno. Pochi ricercatori e ancor minore collaborazione tra questi pochi. La mancanza di forze interne è proprio questo.

Choreola, rivista di etnocoreologia, poteva essere un tentativo, non riuscito fino in fondo, di coagulare forze. Folk Bulletin, in compenso, non poteva avere sufficiente autorevolezza per farlo non essendosi occupato che in secondo piano di danza.

Non importa assolutamente dove stiano le colpe di questa difficoltà. Ne soffre l’Italia come anche, in misura diversa e con altre risorse, altri paesi europei ben più avanti di noi.

Cosa ci vuole per cambiare le cose? Buona volontà? Un riconoscimento delle differenze e dei limiti di ciascuno? Noi non possiamo saperlo.

Abbiamo fatto interviste, questa credo sarà l’ultima, per conoscere. Abbiamo conosciuto e approfondito anche dietro i riflettori. Non abbiamo fatto domande cattive o provocatorie per il timore di aprire fratture e di parere parziali.

Ora, che tiriamo i remi in barca, vorremmo che tutto questo possa servire a qualcosa.

Ci chiediamo se sia possibile, e lavoreremo per questo, che tesi e differenze si possano incontrare dietro un tavolo. Che a questo tavolo possa essere data sufficiente pubblicità perché sulle sedie si possano trovare anche rappresentanti di enti e personalità accademiche. Che, con questo scopo, riviste, associazioni, gruppi di danza e, speriamo, ricercatori possano collaborare assieme.

Se non ci riusciremo, non dipenderà da noi. Avremo dato scintilla ad un ambiente troppo fradicio per incendiarsi.