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Tutto il materiale è pubblicato per gentile concessione della rivista Il punto sulla danza articolo di Tiziano Menduto
A circa nove mesi di distanza dalla rinascita della rubrica “A passo di danza” e dall’inizio dell’indagine-questionario sui gruppi di danza popolare in Italia, prendo la parola come curatore con il desiderio quanto mai arduo di fare il punto della situazione. Siamo sinceri, questa indagine è stata sufficientemente fallimentare da risultare, in fin dei conti, significativa. In nove mesi solo un numero esiguo di gruppi ha inviato le risposte al questionario. Certo le domande erano difficili (è di questo faccio ammenda), certo FB ha inviato pochi questionari a pochi gruppi, ma ci aspettavamo più richieste spontanee di partecipazione. Ancora una volta si constata l’invisibilità dei gruppi e le difficoltà di un settore che pure è stato spesso di traino per il mondo del folk-revival italiano. Da un lato gruppi che, per formazione relativamente recente o per semplice distrazione e/o disinteresse, ignorano l’esistenza della nostra rivista. Dall’altro lato gruppi che, in un mercato difficile e volatile come quello italiano, faticano a sostentarsi con la conseguente mancanza di momenti d’incontro per definire linee comuni od obiettivi. Non c’è purtroppo niente da fare. La danza tradizionale, il mondo del suo revival, vive da sempre una condizione talmente precaria (pochi ricercatori, poche ricerche, pochi soldi, poca visibilità, pochi locali,...) da obbligare ciascuno di noi a crearsi una cultura etnocoreutica che si appoggia solo alla nostra storia (stage, conoscenze, gruppi,…) e alle poche letture disponibili. Ne deriva che, nelle riunioni interne ad ogni associazione, diventa già laborioso il confronto sulla scelta dei repertori da proporre: figuriamoci la difficoltà ad avere idee comuni su cosa sia la danza e sul valore delle fonti e degli insegnanti! Malgrado queste considerazioni la lentezza preventivata dell’indagine (che, comunque, non si chiude oggi: scriveteci!!) non ha per nulla minato la possibilità di raggiungere gli obiettivi che ci eravamo posti a priori. Personalmente, e lo dico con una sincerità disarmante, non mi interessava una raccolta di schede di gruppi. L’invisibilità sopra accennata ha cause che non si risolvono con una lista di indirizzi e brevi proponimenti. Con poche domande, vaghe ma non superficiali, volevo stimolare qualcuno ad andare oltre le solite righe promozionali di un volantino creando stimoli per un dibattito futuro interno o esterno ai gruppi. Le risposte sono state interessanti. Riprenderle, magari prendendo spunto da riflessioni non pensate in risposta a questo questionario (vedi quelle di Gabriele D’Ajello Caracciolo), mi serve per allargare i confini dei temi affrontati e per aumentarne la visibilità attraverso la luce fioca di personalissime considerazioni.
1. Quali sono le attività del vostro gruppo e quali obiettivi vi ponete con la vostra presenza sul territorio in cui operate? Ø Alla prima domanda, relativa alla tipologia e alle attività di ogni gruppo, le risposte sono state le più disparate. Gruppi-spettacolo che diventano associazioni; gruppi musicali che formano gruppi di danza; associazioni che sfidano il mercato investendo soldi ed energie in locali ad uso esclusivo; associazioni che si sono unite tra loro per aumentare forza e visibilità. Le risposte italiane alla domanda di danza ed alle difficoltà del mercato sono state, dunque, le più diverse. Si pensava ci potesse essere una strada, un percorso praticabile da ciascuno per garantire qualità e continuità al lavoro. Ma forse ci si sbagliava. Le situazioni locali hanno tali differenze che nessuna ricetta nazionale può avere senso. Ø Dalle risposte alla prima domanda emerge anche che quasi tutti i gruppi, anche quelli più seriosi, si cimentano nel presente o lo hanno fatto nel passato con veri e propri spettacoli di danza. In certe situazioni considerata un’eresia, la spettacolazione delle danze è comunque una realtà; sia come scelta artistica o strategica (per avvicinare gli utenti…) o economica (per campare…), questa esibizione sommersa rimane uno dei principali richiami per un pubblico nuovo che comincia ad avvicinarsi alla ricchezza e al valore di certe forme artistiche di arte popolare. Si stanno, dunque, riformando i “terribili” gruppi folkloristici che, come cavallette, avrebbero in passato dilapidato ciò che rimaneva del nostro patrimonio coreutico? Quali sono le differenze tra i gruppi di ieri e quelli di oggi? Se, come dice Y.Guilcher, i gruppi folkloristici hanno in passato svolto la funzione di funzionari delle pompe funebri, tumulando la danza che era “pratica del ballo” nella fossa dello spettacolo, quale potrebbe essere il loro ruolo oggi?
2. E’ vera, secondo voi, l’affermazione secondo la quale i praticanti della danza in Italia siano troppo attratti dai passi delle danze straniere per poter esser interessati alla salvaguardia delle nostre tradizioni? Abbastanza scontate le risposte alla domanda che cercava di confrontare l’attrazione che esercitano sui danzatori le danze italiane e le danze “straniere”. Scontate perché chiunque da anni lavora nell’organizzazione di corsi, stage, feste sa per esperienza che il profumo d’Irlanda (ma potremmo dire anche Inghilterra, Scozia, Israele, Grecia, Francia,…) arriva al naso degli utenti più facilmente che quello meno esotico dei vari repertori italiani. Qualcuno cerca di spiegare questo fenomeno accusando (accuse sempre giuste, ma a volte troppo comode…) le istituzioni e il panorama povero della ricerca italiana, qualcun altro citando la necessità di “padronanza gestuale e interpretativa” delle danze nostrane. In questo secondo caso è interessante la riflessione di D’Ajello (FB 9/99). Le danze del Sud, ad esempio, hanno la necessità di essere inserite in un’atmosfera ricca di elementi comunicativi, di storia, di culture in contesti non defunzionalizzati: tutti elementi che a volte stridono con l’urgenza e l’aspettativa di puro consumo. Meno stile, più coreografie, minor necessità di ricerca per le danze esterofile : questi i motivi che rendono più semplice l’apprendimento e l’insegnamento (porta meno sensi di colpa insegnare una bourrée del Berry che un manfrone emiliano?). Ma questo non dipende da nostre modalità errate di avvicinamento alle culture distanti? Culture ugualmente ricche e bisognose di fonti adeguate, linguaggi gestuali appropriati e apprendimenti graduali? Non è certo mia intenzione pensare a vincoli o preferenze per un repertorio o un altro. Una danza italiana o estera ha lo stesso diritto di cittadinanza. Ma siamo sicuri che facciamo di tutto affinché ogni repertorio sia presentato e condotto in modo tale che abbia le stesse possibilità di successo?
3. Che rapporto avete con il mondo della ricerca etnocoreutica? Esistono dei modelli di insegnanti e/o ricercatori cui fare riferimento? Dopo aver tracciato in questi anni un panorama, purtroppo abbastanza desolante in Italia, della ricerca sulla danza (vedi le interviste a Corbefin, Gala, Staro, Guilcher, …), non avevo dubbio che le risposte alla domanda sui contatti con la ricerca etnocoreutica avrebbero messo in luce principalmente due aspetti: Ø I ricercatori italiani sono pochi, i nomi sono sempre gli stessi, e la loro presenza non è in grado di stimolare sufficientemente il panorama dello studio e della pratica della danza tradizionale. Sui perché si possono rileggere le passate interviste a Pino Gala e Dina Staro. Ø C’è una grande confusione tra ricercatori e insegnanti. Etichettare buoni, magari ottimi, insegnanti come ricercatori dà da pensare sulle possibilità dei gruppi di discriminare e scegliere il personale docente. Credo che i nostri più famosi ricercatori abbiano avuto modo in passato di spiegare bene la difficoltà del loro lavoro e l’invisibilità in Italia della ricerca etnocoreutica. Di una cosa ancora non sono però convinto. Quanto da allora è stato fatto per cambiare le cose? Personalmente ho ancora un conto in sospeso. Due anni fa avevo scritto su questo giornale, in conclusione di una rassegna di interviste a ricercatori, che FB avrebbe cercato di favorire l’organizzazione di un incontro sulla ricerca. Un incontro che portasse allo stesso tavolo voci che raramente, in questo panorama pur desolato, si incontrano. Venuti a conoscenza dei progetti di Pino Gala relativi a convegni e incontri, il giornale aveva da subito offerto il suo contributo organizzativo e promozionale. Risultato? Non si è fatto nulla. E allora?
4. Sarebbe interessante capire come i diversi gruppi riescano a sopravvivere in un mercato povero come il nostro…Voi come fate? ÞRiguardo alle modalità di sopravvivenza di ciascun gruppo, le risposte purtroppo nominano sempre la stessa parola: volontariato. In quasi tutti i gruppi il volontariato, ovvero il lavoro non retribuito, è ancora la base portante; spesso una base, almeno vale per l’esperienza nelle associazioni milanesi, non più giovane e con difficoltà di coinvolgimento proprio del mondo giovanile. ÞL’organizzazione dei concerti, a parte rare eccezioni, sembra incontrare diversi ostacoli o, meglio, sembra scontrarsi con il solito muro divisorio tra amanti della danza e amanti della musica. Un muro resistente costruito con il cemento di un passato ricco di ignoranze accettate e diffuse. Quelle per cui i corsisti imparavano a ballare una Courento o un Circolo Circasso su un’unica melodia registrata. Quelle che dimenticavano l’importanza della musica “viva”, dell’importanza del binomio musicista/danzatore. Quelle dei musicisti che consideravano danzatori e danza la pattumiera della tradizione. E’ avvenuto nel tempo un cambiamento di questo pericoloso atteggiamento mentale? In buona parte, almeno per i gruppi che ci hanno risposto, direi di sì. Ma quante ancora sono le sacche di resistenza al cambiamento? ÞMa è doverosa anche una seconda considerazione.Quanto la nostra musica da ballo ha saputo rinnovarsi qualitativamente all’interno dei suoi sacrosanti codici musical-coreutico-sociali? Quanti gruppi in Italia possono, sanno, riescono a riproporre un repertorio da danza senza cadere nei soliti ripetitivi arrangiamenti?
5. Alcune associazioni soprattutto francesi si sono proposte come obiettivo di educare musicalmente ogni appassionato di danza e viceversa…Voi cosa ne pensate? Le risposte sono confortanti. Tutti i gruppi hanno riconosciuto quest’esigenza. Peccato che gli stessi gruppi debbano altresì ammettere che i corsi di strumento raramente sono affollati. Torniamo dunque a quanto detto sopra. Probabilmente ogni associazione ha bisogno di rimboccarsi le maniche per stimolare un desiderio che oggi è carente. Interessante la risposta del gruppo la Violina di Bologna: è importante educare anche i suonatori alla danza. Quante danze, ad esempio, rischiano di essere stravolte perché suonate sempre più velocemente?
6. I corsi di base. Inutili e dannosi perché non approfondiscono il concetto di danza tradizionale come espressione culturale di un’etnia, utili perché vengono incontro alle esigenze di chi vuole soprattutto divertirsi. Oppure la verità sta nel mezzo? Consapevole dei pregi e dei difetti dei corsi atti ad avvicinare nuovi adepti alle danze, credevo di sollevare con questa questione un piccolo vespaio. Invece no. Ho solo sollevato un po’ di confusione. Dalle risposte emerge che con corsi di base si intendono cose ben differenti. Il problema, infatti, non era distinguere il “classico” corso di base (una macedonia di danze di varie origini selezionata secondo il divertimento e secondo la comparsa nelle serate a ballo) dallo stage specifico del docente di madrelingua e “madrecultura”. Il problema era capire come e se questo corso di base, visto da tutti “necessario per avvicinare un pubblico più vasto al mondo delle danze”, si fosse evoluto negli anni. Vi sono associazioni, ad esempio, che hanno sostituito questi appuntamenti con piccoli (da 2 a 5 incontri) corsi di base monografici: un approccio alla danza che, pur tenendo conto degli elementi ludici e di pratica della danza, dia la possibilità al danzatore di entrare in contatto con una cultura e all’insegnante di sviluppare un minimo di competenze specifiche. Altri gruppi hanno anche abbandonato, laddove possibile, il registratore (o più modernamente il lettore CD) per introdurre la musica dal vivo. In fondo volevo sapere questo. Incontrarmi con l’accettazione o il rifiuto di queste novità. Ma in fondo la pazienza è anche la virtù dei “giornalisti” che non scelgono domande chiare.
7. Collaborate con altre realtà affini alla vostra e impegnate sui vostri stessi temi? Vi sentite in concorrenza? Uhh, la domanda sulla collaborazione! Il mondo del folk-revival è un mondo piccolo; un mondo in cui le associazioni si sono formate, sciolte, spaccate, divise con la stessa naturalezza e velocità del cambiare delle stagioni. Credere che la conflittualità non esista è un ingenuità che non possiamo permetterci. Almeno se vogliamo in questo mondo trovare delle forme di collaborazioni vere che siano più attraenti delle ipocrisie. Un aneddoto da pubblicitari racconta di un ricercatore di mercato che andava per le strade statunitensi anteponendo alle sue inchieste una domanda molto semplice: “Che cosa preferireste sentire stasera alla radio: Jack Benny (credo un comico ,ndr) o una commedia di Shakespeare?”. Per gli amanti radiofonici di Shakespeare l’intervista si fermava lì: erano considerati assoluti ipocriti. La domanda non cercava pettegolezzi, voleva aprire una breccia nel dedalo dei rapporti tra i gruppi, sottolineare il pericolo delle tante incomprensioni per esaltare ogni forma di collaborazione. Collaborazione che in alcune regioni, nel presente e nel passato, ha dato vita a veri e propri coordinamenti. Stimolo di alcune delle iniziative più interessanti del panorama della danza in Italia, i coordinamenti locali (cittadini, provinciali o regionali) hanno la capacità (almeno fino a quando non siano viziati dai dissidi interni) di far circolare le necessarie informazioni tra i gruppi: ci si scambiano programmi evitando indegne sovrapposizioni di stage, corsi e concerti. Tuttavia manca una forma di coordinamento nazionale (le esperienze del passato sono state utili quanto faticose) in grado di dare forza ad un mercato frammentario e decisamente fragile. Un coordinamento in grado non solo di informare ma di riunire intorno ad uno stesso progetto di stage o concerto più gruppi, associazioni. Il risultato può essere un notevole risparmio, una maggiore visibilità, una maggiore forza contrattuale. Oggi questo coordinamento è facilitato dal mezzo informatico. E’ per questo motivo che il giornale si fa promotore di una Mailing List ad iscrizione gratuita ma con accesso destinato ai soli rappresentanti di gruppi/associazioni che operano nell’ambito della danza e della musica tradizionale. Attraverso l’E-mail ogni gruppo può proporre formule di collaborazione, chiedere e dare informazioni, confrontare le esperienze e conoscere meglio il mercato/ambiente in cui ci si trova ad operare. FB inoltre vuole aiutare questo coordinamento virtuale (senza vertici, rappresentanti o capi) con un piccolo spazio pubblicitario gratuito mensile dedicato alle iniziative in programma. Per iscriversi o chiedere informazioni fate riferimento all’indirizzo e-mail: tizmen.satie@iol.it .
8. Secondo voi la qualità dell’insegnamento in Italia è di buon livello? Oppure esistono situazioni talmente diverse tra di loro che è impossibile esprimere un giudizio complessivo? Una domanda rischia di essere inutile quando ha al suo interno un salvagente con una risposta di comodo già pronta. E questo salvagente è stato addirittura consumato dall’uso. Eppure dalle penne dei gruppi qualcosa di interessante è uscito. Qualcosa che mi permette di tracciare un piccolo identikit dell’insegnante in Italia e di accompagnarlo con mie personali considerazioni. Partiamo dalle risposte alla domanda.
Ø Insegnanti portatori. Semplificando alquanto, qualcuno divide tra insegnanti portatori e rappresentanti di una cultura (o perché cresciuti in loco o perché da anni ricercatori di questa) e insegnanti altri. E risulta assolutamente vero che di portatori di una tradizione in Italia ne abbiamo proprio pochini. E’ sicuramente vero che questi pochi dobbiamo tenerli stretti. Ma è solamente questa la discriminante tra un buono ed un cattivo insegnante? Credo proprio di no. Ci sono anche casi che dimostrano che l’insegnante del luogo (che è cosa diversa dal ricercatore che nel luogo ha ricercato) può non essere in possesso sia degli strumenti più adatti per decodificare il proprio linguaggio gestuale-motorio che di metodologie adatte a comunicare le proprie conoscenze.
Ø Insegnanti coscienziosi. Qualcuno parla della necessità di “insegnanti coscienziosi”. Può sembrare una richiesta superficiale, ma forse molto più precisa e puntuale di tanti giri di parole. Archiviata la possibilità di arrivare ad avere in Italia tanti insegnanti-portatori di cultura, non ci rimane che sperare, infatti, di avere almeno tanti insegnanti che fondino la loro attività su fonti solide e certe. Meglio se fonti derivanti dal confronto che non dal pedissequo adeguamento e ripetizione delle tesi, dello stile, del pensiero di un unico insegnante-fonte. Fonti documentate, magari, anche su libri o materiale di riflessione sul repertorio: quando insegniamo non trasmettiamo solo dei passi. Forse non saremo in grado di trasmettere una cultura, ma dobbiamo almeno trasmettere una curiosità , un interesse che i nostri allievi potranno coltivare in futuro ricercando le nostre stesse fonti e i nostri stessi documenti. Se partiamo poi dal presupposto che “l’insegnamento debba essere radicato, per appartenenza o per scelta, nella cultura che la danza esprime”(D’Ajello), l’insegnante coscienzioso, oltre a possedere ottime fonti del patrimonio motorio e culturale, cerca di comunicare un linguaggio che se ancora non possiede interamente almeno comprende. L’insegnante coscienzioso si specializza nei repertori che sente di comprendere, a cui sente di essere affine. Lo stesso disagio che in passato ho provato nell’insegnare danze o suonare melodie da ballo che non sentivo, lo vivo ancora oggi di fronte ai buoni insegnanti che arrivano a cimentarsi in troppi repertori. Ma riguardo a queste considerazioni nessuno può sentirsi tanto innocente da scagliare la prima pietra.
Ø Insegnanti e basta. Il Teamballo emiliano nelle sue risposte, oltre a ripercorrere con parole diverse le figure del portatore di una tradizione e dell’insegnante coscienzioso, introduce il tema dell’ “insegnante e basta”. Figura che in altre risposte è accusata di leggerezza e improvvisazione. Non ci soffermiamo sull’identikit di quest’individuo oscuro, di quest’individuo che si aggira per le sale storpiando i nomi delle danze che insegna e insegnando di tutto. In questo identikit nessuno si riconoscerebbe mai dopo essersi dolcemente identificato in quello più posato del “coscienzioso”. Ma siamo sicuri che questo “insegnante e basta” è latore di sole oscurità? Non può possedere altre caratteristiche, altre virtù che nell’insegnamento possono esser utili a qualunque docente? Non potrebbe essere un buon ballerino, possedere ottime doti comunicative e avere dei buoni metodi di insegnamento?
Ø L’insegnante ballerino. E’ indubbio che le abilità di un danzatore contino. Abilità che in alcuni casi sono padronanza di uno stile, in altri semplici virtuosismi che poco hanno a che fare con il repertorio insegnato. Se comunque è indubbio che danzare bene aiuta a raccogliere nei propri passi le sfumature di uno stile, spesso quest’abilità è terribilmente confusa con la coscienziosità. Tanto che da quel bravo ballerino si andrebbe ad apprendere tutto, anche quello che non sa.
Ø L’insegnante animatore. Alcuni insegnanti sono molto amati per le capacità comunicative, per la simpatia, per il saper utilizzare al meglio le potenzialità socializzanti delle danze. Lo so, stiamo parlando di una categoria di insegnanti che più si avvicina al concetto negativo di improvvisazione che abbiamo testè citato tra le risposte. Lo so. L’insegnante animatore spesso è quello che accantona tra i suoi obiettivi la trasmissione di una cultura, di uno stile, di una curiosità che vada oltre il nome e l’origine della danza. Magari selezionando le danze con il solo intento di far divertire, di animare una serata o un corso-macedonia. Bene, fin qui tutto il livore critico che ciascuno di noi, magari animatore nel passato, può avere trattenuto in questi anni. Tuttavia queste capacità comunicative sono importanti. Quanti allievi magari abbandonano il tal insegnante perchè: sì, è bravo...sì, si vede che conosce bene le danze...sì, dice anche un sacco di cose interessanti, ma...è pesante, è nervoso, non ci comunica nulla. In fondo abbiamo un ottimo esempio di insegnante molto comunicativo, di un insegnante divertente è al tempo stesso serio nel suo lavoro: Yvon Guilcher. Un buon docente deve saper dosare, specialmente con persone che da poco tempo si avvicinano alle danze, la parola e la danza, la fatica ed il piacere. Deve saper trasmettere, ancor prima dei passi dei documenti, qualcosa di fondamentale: la passione. La stessa passione che un giorno lo ha avvolto portandolo in giro per l’Italia o per l’Europa a seguire stage o a frequentare biblioteche.
Ø L’insegnante pedagogo. Non fatevi fuorviare dal termine “pedagogo”, non sto parlando di insegnamento ai bimbi e/o nelle scuole (tema che mi preme affrontare più avanti). Parlo di qualcosa che nei corsi, negli stage è un fantasma che aleggia per lo più per la sua assenza. Parlo di didattica, parlo di metodologia dell’insegnamento della danza. Di qualcosa che non è più virtù comunicativa dal punto di vista del carattere, ma virtù comunicativa dal punto di vista della scelta del metodo di trasmissione del proprio sapere. Ritengo questo elemento, in perfetto accordo con quanto detto da Folkolore, importantissimo . Tanto importante che diventerà per il futuro uno dei temi da affrontare, con il contributo di qualche intervista illuminante (prossimamente pubblicheremo nella rubrica i resoconti di una chiacchierata con Naik Raviart in merito a questo problema) e, spero, delle vostre esperienze. Certo che non esiste un metodo perfetto, una metodologia valida per ogni situazione e per ogni persona. Ma metodi, esperienze didattiche interessanti e valide li incontriamo e riscontriamo tra insegnanti di tipologia e formazione diversa. Chi preferisce arrivare al passo giusto, allo stile corretto attraverso la scomposizione prima e la riunione poi dei suoi elementi dinamici. Chi pensa che sia necessario creare a priori un sentire comune fatto di ascolto del proprio e dell’altrui corpo. Chi si inerpica con i propri allievi nella sola strada dell’imitazione. Chi presenta poche danze e lavora molto sullo stile. Chi presenta molte danze e lavora sui legami tra di esse. Metodi. Scelte. Chiamateli come volete. Ma di questo non si parla mai. Ed è un peccato.
Ø L’insegnante doppio. Alcune associazioni stanno cercando di proporre, specialmente per i repertori che comprendono danze di coppia aperta e chiusa, delle coppie di insegnanti. Coppie che siano in grado di mostrare con uguale disinvoltura lo stile maschile e femminile. Se a questa coppia si aggiunge il musicista dal vivo, finiamo col trovarci in una situazione ideale in entrambe le accezioni del termine “ideale”. Una situazione ottima dal punto di vista delle capacità di trasmissione di un repertorio. Una situazione probabilmente solo virtuale: come riuscire a pagare addirittura tre persone?
Ø L’insegnante professionista. Conosco molte persone, alcuni buoni insegnanti e amici, che tentano di fare dell’insegnamento della danza una professione. Che dire? Non è assolutamente semplice ed espone a seri rischi sia la passione che dovremmo condividere che i principi che dovremmo avere. Tutti conosciamo il mercato italiano del folk-revival. Un mercato ancora povero nei numeri e nella cultura. Quanti compromessi dovremmo accettare in un mercato come questo?
Ø L’insegnante e la scuola. Non si può non accennare, in questa panoramica sull’insegnamento, alla presenza di una scuola di formazione e ad un percorso di qualificazione degli insegnanti come quello messo in piedi da Pino Gala con l’Associazione Taranta. Ma non c’è tempo e spazio ora per presentare teorie pro o contro questa esperienza. Sicuramente è un’esperienza ben presente in Francia, ma non so con quali risultati. Anche di questo si parla poco.
8. Un ultima domanda, forse la più difficile: cos’è per voi la danza tradizionale? Non so se fosse la più difficile. Sicuramente tra quelle che ho proposto rischiava di essere la più inutile. Una definizione di danza tradizionale presuppone il chiarimento di cosa si intenda per “tradizione”. Un chiarimento che probabilmente scadrebbe alla prima pubblicazione del nuovo libro sull’argomento. Malgrado ciò le risposte, spero ben dibattute nei singoli gruppi, sono state assai interessanti. Risposte ricche di definizioni più o meno dettagliate, ad esempio :“quell’insieme di gesti e movimenti coreutici che contraddistinguono le diverse etnie come manifestazione di quanto un popolo ha vissuto”. Con la consapevolezza tuttavia per alcuni che la “danza tradizionale è morta” e che noi viviamo in una situazione di revival ballando “danze decontestualizzate attratti dal loro patrimonio espressivo-musicale e affascinati dalla dimensione evocativa di comunità”. E in fondo il relativismo che ci spinge a pensare che forse “la risposta è diversa per ognuno di noi, perché legata alla propria storia ed esperienza”.
Tante definizioni e tante idee diverse. Tante preoccupazioni e tante strategie. Tanta necessità di parlarsi e di scambiarsi idee, tanto bisogno di confrontarsi come metafora di quella dimensione evocativa di comunità che viene disattesa spesso da rancori o malintesi. Questa rubrica dovrebbe servire anche a questo. Non solo con il lancio in rete di una Mailing List che spero tutti gruppi sapranno utilizzare per il meglio. Ma anche con il contributo dialettico di tutti i gruppi che non hanno ancora espresso la propria opinione. Se ci scriverete, un consiglio: rispondete pure a queste domande, ma liberamente. Andate oltre, prendetevi lo spazio di dire altre cose che vi paiono importanti. Fatevi almeno una domanda da voi. E non aspettatevi di essere contattati dal giornale. Noi attendiamo.
TIZIANO MENDUTO
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